Storia

La storia della Camera penale di Napoli si identifica con una illustre tradizione forense riconosciuta in tutta Italia. Siamo nell'800, quando il meglio dei penalisti partenopei era rappresentato da nomi come Enrico Pessina, Leopoldo Tarantini, Nicola Amore, Francesco Bax, Raffaele Magliano. E fu proprio da una loro intuizione che venne creata un'associazione che doveva delimitare i campi di azione e di impegno dei penalisti.

La Camera degli avvocati penali nacque così, nel 1867, in quel Castelcapuano che dal 1540 era sede del Tribunale partenopeo. Fu appena un anno dopo che l'allora presidente della Corte d'appello, Giuseppe Mirabelli, concesse agli avvocati, per farne la loro sede, un locale che al tempo degli aragonesi era noto come il "salotto della regina". Si trovava nello spazio che a Castelcapuano divide ancora la biblioteca da due aule civili. Solo 15 anni dopo la creazione dell'associazione, venne nominato un presidente. Era il 1882. La scelta cadde su Raffaele Magliano, barone di nascita nato a Larino in provincia di Campobasso da una famiglia di magistrati e avvocati, che aveva allora 54 anni. Alta oratoria, impegno politico (Magliano fu deputato e due volte consigliere comunale), il presidente incarnava tutte le caratteristiche che si riconoscevano al "sommo penalista", come si diceva allora. Era molto amico di Alessandro Dumas padre, che difese nel 1861 in un processo di diffamazione, quando il romanziere dirigeva a Napoli il quotidiano garibaldino "L'Indipendente". Tra i fondatori della Camera penale, con Magliano, c'erano anche gli avvocati Nicola Amore, Enrico Pessina (genero di Luigi Settembrini), Francescantonio Casella (ex magistrato), Leopoldo Tarantini.

Più club esclusivo ("un cenacolo" , come lo dipinse la penna di Tullio Rispoli) che associazione politica o sindacale, la Camera penale rivendicava l'orgoglio di appartenenza ad una specializzazione giuridica (la materia penale), considerata allora quasi un'arte che coniugava retorica, cultura umanistica, sapere giuridico. E quell'orgoglio di appartenenza, nell'età liberale, si sposava con la fama, riconosciuta sull'intero suolo nazionale, di un foro dalla grande tradizione. Gli avvocati si scambiavano opinioni, confrontavano il loro sapere, i problemi tecnici dei loro processi. All'arricchimento dell'associazione contribuirono giuristi come Francesco Girardi, Gaetano Manfredi, Edoardo Ruffa, Vastarini Cresi. Severe le regole previste per accedere a quella Camera penale delle origini: dieci firme di soci come presentazione, un minimo di tre anni di esercizio professionale come garanzia, il voto favorevole dei due terzi dei soci. Un club esclusivo, dove si avvicendarono, alla presidenza, gli avvocati Vittorio Masucci, Federico Pollio, Giovanni Palermo. Dopo 44 anni, però, la Camera penale dovette interrompere la sua attività.

Era il 1926, quando il fascismo creò le corporazioni, sciogliendo tutte le associazioni. Formalmente, anche grazie a Nicola Sansanelli, la Camera penale rimase in vita, conservando anche i suoi locali. Ma ogni attività, di fatto, fu sospesa. E proprio a quel periodo risale la distruzione del suo archivio e dei documenti sui primi 44 anni di vita. Una pausa durata fino al 1944. Con la presidenza di Domenico Miranda, i penalisti ricostituiscono la loro associazione. Nel solco della tradizione. Via via, alla presidenza si succedono Ettore Botti, Giulio Nocerino, Giuseppe Minichini. Ma la rivitalizzazione, il cambio totale di struttura e identità comincia soltanto negli anni '80. Con la presidenza di Aldo Cafiero, che trasforma un club esclusivo in un'associazione anche di impegno sindacale. Non solo confronto interno, e specialistico, su argomenti tecnico-giuridici, ma anche interesse verso gli uffici giudiziari, l'organizzazione dell'amministrazione della giustizia, le norme approvate dal potere legislativo. Una cura all'avvio che trova la sua prima e completa attuazione con la presidenza di Michele Cerabona. Alla fine degli anni '80, le frizioni con i capi degli uffici giudiziari napoletani si moltiplicano. Interessi divergenti, distanza nell'interpretazione delle norme, alcuni discutibili atteggiamenti dei vertici inquirenti. La Camera penale è in prima fila nelle critiche alla gestione della Procura e della Procura generale. E molti iscritti vengono chiamati dal Csm per essere sentiti sull'operato del procuratore capo Alfredo Sant'Elia e del procuratore generale Aldo Vessia. Su quest'ultimo, in relazione alla gestione di un'indagine (la prima istruttoria sul delitto Siani), vengono prodotti documenti di fuoco, si lanciano proteste, su cui si attivano molto consiglieri come Gaetano Di Lauro e Antonio Briganti. Qualche penalista tentenna, ma gli avvocati si mostrano abbastanza compatti. E Vessia anticipa tutti, chiedendo al Csm il trasferimento alla Cassazione. E' una vittoria per gli avvocati. Qualche mese prima, era andato via anche il procuratore Sant'Elia.

Passa il nuovo codice di procedura penale, si avvia la Procura circondariale, si attraversano i problemi delle legislazioni di emergenza, dei collaboratori di giustizia, dell'istituzione della Procura nazionale antimafia. Alla presidenza di Tommaso Palumbo, succede prima Angelo Peluso, poi un triumvirato (Giovanni Esposito Fariello, Lucio Portaro, Gaetano Di Lauro). Infine, la svolta definitiva: la Camera penale diventa punto di riferimento sociale e politico anche fuori dalle mura del Tribunale. In materia di giustizia e di diritti dei cittadini è una voce che conta. I penalisti napoletani diventano parte determinante nelle scelte dell'Unioncamere, che comincia ad affermarsi a partire dal '92. La svolta si attua con la presidenza di Claudio Botti, affiancato dall'infaticabile segretario Gaetano Di Lauro, una vera mente organizzativa. Il libro bianco sulla gestione della Procura della Repubblica guidata da Agostino Cordova (che il Csm archivierà senza neanche discuterne), il ridimensionamento dell'arma dell'astensione, la presenza incisiva nei dibattiti cittadini. Nel segno della continuità, a Botti (nipote di Ettore), diventato vice presidente della giunta dell'Unioncamere, succede Antonio Briganti. Instancabile presidente, dovrà fare a meno dell'opera di Gaetano Di Lauro (vero nocchiero del passaggio dell'associazione dal vecchio al nuovo Tribunale napoletano), che morirà prematuramente qualche mese dopo. Affiancato da una squadra compatta di consiglieri, Briganti completerà l'opera avviata da Botti, dando vigore, iniziativa, prestigio alla Camera penale. L'organismo fa invidia e gelosia alle altre associazioni forensi. Ma ha conquistato autorevolezza politica e sindacale. I convegni organizzati a Napoli hanno per relatori alti magistrati, politici nazionali, docenti universitari.

Non c'è tema giudiziario in cui la Camera penale non sia presente: legislazione, organizzazione degli uffici, interpretazione delle norme, diritti dei cittadini, rapporti con la magistratura, associazionismo forense. La giunta Briganti costituisce una Fondazione per la gestione delle iniziative culturali. Poi, la storia di oggi. Michele Cerabona, dopo le esperienze nazionali (prima vice del presidente Gaetano Pecorella, poi in giunta), torna alla presidenza napoletana. Per la seconda volta. In un momento di difficile transizione: stemperata l'arma delle astensioni per effetto di una legge, i penalisti devono ora affrontare il difficile dibattito sulle nuove norme del pacchetto sicurezza. Mentre passano leggi su cui gli avvocati hanno spinto molto: la modifica dell'articolo 111 della Costituzione, le indagini difensive, le norme sui collaboratori di giustizia.

Gigi Di Fiore (giornalista de "Il Mattino" di Napoli)

Hanno, di recente, presieduto l'Associazione Angelo Peluso
Giovanni Esposito Fariello, Lucio Portaro e Gaetano Di Lauro
Claudio Botti
Antonio Briganti
Michele Cerabona
Domenico Ciruzzi
Ettore Stravino

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