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Intervento dell'avv. Attilio Belloni alla inaugurazione dell'anno giudiziario

INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA CAMERA PENALE DI NAPOLI ALL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO

       

Anche quest’anno e forse soprattutto quest’anno siamo stati costretti ad assistere al cosiddetto cortocircuito mediatico - politico - giudiziario, che ha prodotto una palese compressione delle garanzie individuali dei cittadini, attuata attraverso reiterate violazioni di principi costituzionalmente garantiti, come quello della inviolabilità della libertà personale, del giusto processo, della sua ragionevole durata e della rieducazione della pena.

 

Infatti, campagne mediatiche di inaudita pervasività alimentano una percezione, spesso erronea, di allarme sociale rispetto a fenomeni delinquenziali che purtroppo si manifestano da tempo.

Sulla stampa e in televisione si enfatizza la posizione della pubblica accusa e si trascurano del tutto le ragioni della difesa. Si celebrano, infatti, processi “virtuali” con condanne pronunciate sulla scorta delle conferenze-stampa dei magistrati inquirenti e di quegli atti di indagine, accuratamente selezionati, che dimostrerebbero la responsabilità degli indagati.

Con il risultato di provocare danni gravissimi per il cittadino – presunto innocente secondo il dettato costituzionale - che subisce un vero e proprio “linciaggio” dagli effetti irreparabili, nonostante spesso riesca ad ottenere la revoca delle ordinanze di custodia cautelare poco dopo la loro applicazione ovvero, quando il reato non si prescrive, sentenze di assoluzione.

 

La politica, incapace di attuare efficaci controlli interni di tipo preventivo, propone e attua estemporanee modifiche della normativa penale in chiave soltanto “repressiva”, sull’onda della presunta “emergenza” indotta dai media e dettate dall’esigenza di ottenere un consenso elettorale, senza avere la capacità e la forza di elaborare qualsiasi progetto di una riforma organica e razionale del codice penale e di quello di rito.

Sono sintomatiche di tale erronea prospettiva le riforma proposte dal Governo nel disegno di legge n° 2798 presentato alle Camere il 23.12.2014, in tema di corruzione e prescrizione.

Già la legge Severino aveva inasprito le pene per i presunti corruttori senza evidentemente sortire effetti positivi. Perché mai l’ulteriore aumento di pena proposto nel citato disegno di legge dovrebbe avere migliore sorte e debellare il fenomeno corruttivo?

Quanto alla riforma della prescrizione, è evidente che il Governo, nel prendere atto di un sistema che non è in grado di rispondere ad una mole notevole di processi – spesso inutili sia perché relativi a fatti privi di concreta offensività penale sia perché fondati su elementi di prova inconsistenti – propone una soluzione che, se attuata, costringerebbe il cittadino imputato di qualsiasi delitto, anche il meno grave, a subire un processo per 10 anni e 6 mesi, in violazione del principio costituzionale della “ragionevole durata del processo”.

Al riguardo si rendono necessarie le seguenti precisazioni, onde dimostrare che la lungaggine dei processi non dipende certo da esigenze legate alla difesa: 1. secondo i dati forniti dal Vice Ministro della Giustizia, il 70% delle prescrizioni matura nella fase delle indagini; 2. secondo una indagine Eurispes-Ucpi svolta nel 2008 (l’esperienza insegna che la situazione non è da allora mutata), nel Sud Italia il 30% delle udienze dibattimentali sono state rinviate per assenza del Giudice Monocratico o per la precarietà del Collegio Giudicante, a dimostrazione dell’esigenza, rimarcata anche dal Presidente della Corte di Appello, di una riforma in tema di mobilità dei magistrati; 3. è a tutti noto, ma è bene ribadirlo, che i termini della prescrizione sono sospesi in caso di rinvio del dibattimento su istanza del difensore dell’imputato.  

 

 

La Magistratura, nell’attuale fase storica, sembra pronta ad accollarsi questo ruolo di “supplenza” che la politica gli ha attribuito, assecondando una concezione del processo penale come strumento di lotta ai fenomeni criminali e attribuendosi, con spiccata vocazione etico-pedagogica, il compito di garante esclusivo della legalità.

Duole sottolinearlo: la Magistratura associata ha in buona parte abbondonato ogni discussione sulla necessità di porre al centro del dibattito “la cultura delle garanzie” e di esercitare il potere giudiziario con sensibilità umana e nel rispetto assoluto delle regole processuali.

 

Tale meccanismo perverso produce effetti negativi tangibili anche nel sistema penale del nostro distretto giudiziario, che si caratterizza  per un tasso di “carcerizzazione” troppo elevato.

 

Il primo dato indiscutibile è rappresentato da un uso distorto ed eccessivo delle misure cautelari personali, che da extrema ratio sono diventate forme di anticipazione della pena.

La “partita si gioca” nella fase cautelare a discapito della inviolabilità della libertà personale e della centralità del dibattimento, che dovrebbe costituire il luogo ove il cittadino imputato riceve una effettiva ed adeguata tutela delle sue ragioni

Tali considerazioni trovano riscontro nei dati statistici di cui è possibile disporre.

Infatti, negli anni dal 2011 al 2013 ben 4 cittadini su 10 sono stati ingiustamente privati della propria libertà personale con ordinanze di custodia cautelare personale, annullate o riformate dal Tribunale del Riesame (nel dettaglio in tali anni: su n° 14.288 ordinanze emesse, n° 2.632 sono state annullate e n° 2.985 sono state riformate)

Non solo: nell’anno 2014, sono state presentate alla Corte di Appello di Napoli n° 308 istanze di indennizzo per ingiusta detenzione a seguito di proscioglimento con sentenza definitiva (quasi una al giorno), in parte accolte con la liquidazione complessiva di una somma di denaro superiore a 4 milioni di euro e in parte rigettate, ma solo perché il periodo di ingiusta custodia cautelare è stato computata ai fini della determinazione della pena comminata per altro reato.

 

Per comprendere la fondatezza delle ragioni di una battaglia contro l’abuso della carcerazione preventiva basta citare testualmente le parole pronunciate il 14 ottobre u.s. in occasione di un incontro con una delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale da Papa Francesco: “….la carcerazione preventiva, quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso, costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questo fenomeno contribuisce al deterioramento ancora maggiore delle condizioni detentive, situazione che la costruzione di nuove carceri non riesce mai a risolvere, dal momento che ogni nuovo carcere esaurisce la sua capienza già prima di essere inaugurato…. ”

 

 

I processi che si riescono a definire sono soprattutto quelli a carico di detenuti ed in particolare quelli per fatti di criminalità organizzata, ma per tali processi è previsto un sottosistema di norme in contrasto con i principi costituzionali, per effetto del quale, anche in questo caso in nome di esigenze di difesa sociale, l’imputato non riceve un’effettiva e adeguata tutela.

Eppure, il processo penale non dovrebbe essere strumento di lotta alla criminalità di qualsiasi genere, ma solo strumento di accertamento di un’eventuale e personale responsabilità dell’imputato in ordine ad un specifico fatto storico; accertamento che in ogni caso deve essere condotto nel rispetto dell’art. 111 della Costituzione e delle norme ordinarie del codice di rito.

Il tema è di decisiva importanza se si considera la tendenza ormai inarrestabile di estendere ad altri reati il sottosistema di norme incostituzionali di cui si è detto (c.d. doppio binario), con il rischio quindi che la mortificazione della funzione difensiva diventi la regola in tutti i processi.

 

Nella fase esecutiva, la detenzione in carcere continua ad essere la regola, con un’applicazione limitata di misure alternative, sanzioni sostitutive e messa alla prova.

Ciò contribuisce, unitamente all’eccessivo uso dello strumento della carcerazione preventiva, di cui si è detto, a determinare un sovraffollamento degli istituti di pena, che, nonostante i “proclami” del Governo, costituisce ancora un’emergenza ed è causa di trattamenti disumani e degradanti (nel 2014 n° 43 detenuti si sono suicidati e n° 131 sono deceduti per altra causa; nei primi giorni del mese in corso n° 3 detenuti si sono suicidati e n° 6 sono deceduti).

Tale sovraffollamento riguarda anche gli istituti di pena campani, ove, secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia, al 31 dicembre del 2014, erano presenti 7.188 detenuti, di cui ben 1.383 in attesa del giudizio di primo grado, a fronte di una capienza regolamentare di 6.088 detenuti.

Al riguardo, altresì, appare utile rimarcare che, secondo i dati forniti dall’Osservatorio Carceri dell’UCPI, al 27.11.2014 erano pendenti n° 18.219 ricorsi per i trattamenti disumani e degradanti subiti dai detenuti e ne sono stati accolti solo n° 87, nonostante la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbia sempre raccomandato all’Italia rimedi effettivi, rapidi ed efficaci per la soluzione del problema. Per quanto riguarda il distretto napoletano, ne sono stati dichiarati inammissibili 124, accolti n° 0 e rigettati n° 2.

 

Un’ulteriore considerazione attiene al 41bis.

Il trattamento del carcere duro è diventato un argomento tabù, del quale non si dovrebbe parlare, perché impopolare e a rischio di linciaggio mediatico.

Tuttavia, pur correndo tale rischio, l’avvocatura penale evidenzia la necessità di promuovere una discussione in merito, poiché il 41bis è uno strumento attraverso il quale si realizzano inaccettabili compressioni dei diritti minimi dell’individuo, spesso non necessari per realizzare gli scopi per cui è stato previsto dal legislatore, cioè evitare i contatti tra il detenuto e la realtà criminale esterna.

Peraltro, giova ricordare che “Il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti ebbe a affermare testualmente che “….potrebbe anche ritenersi che un obiettivo non dichiarato del 41bis sia quello di porre in essere un mezzo di pressione psicologica al fine di provocare la dissociazione o collaborazione….”

E soprattutto: il Santo Padre in occasione dell’incontro di cui si è detto ha anche affermato testualmente: “….un forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di persone si realizza un isolamento esterno. Come dimostrato dagli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri essere umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio....”

 

In questo quadro, l’avvocatura penale vive una condizione di frustrazione, costretta a subire finanche la violazione della garanzia fondamentale prevista dall’art. 103 del codice di rito, attraverso intercettazioni di comunicazioni e conversazioni con i propri assistiti.

Proprio l’avvocatura penale è rimasta l’unica voce isolata che sostiene la necessità di un diverso approccio culturale ai problemi della giustizia, che ponga al centro del dibattito le garanzie costituzionali del cittadino, che purtroppo ha contezza di un sistema che non lo tutela nei suoi diritti fondamentali solo quando malauguratamente ne è coinvolto.

 

L’auspicio è che il cortocircuito di cui si è detto all’inizio venga spezzato con la collaborazione di tutti; che le misure cautelari si applichino nei casi assolutamente necessari; che i processi si facciano nell’aule di giustizia e nel rispetto delle garanzie previste dall’art. 111 della Costituzione; che la pena sia destinata alla rieducazione del reo e non debba sempre e comunque essere scontata in carcere.

 

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